Sempre la stessa storia

Notte. Che ore erano? Xavier non riusciva a prendere sonno. Il suo corpo aveva voglia di muoversi, di correre, di fuggire. La sua mente invece arrancava. Riflessioni continue. Sognava. Ad occhi aperti. Un insieme di ricordi, di frasi, di messaggi impliciti. Un continuo scorrere di linguaggi. Apparentemente indecifrabili. Si è proprio stupidi quando si ama. Tachicardie, agitazioni. Xavier ricordava quei volti, riascoltava quelle parole. Queste tuonavano impetuosamente nella sua testa, come canti di peana. Una continua battaglia col proprio io. Le frasi giungevano in maniera disordinata. Il suo compito era rimetterle in ordine. Spesso non riusciva. Sentiva con veemenza un dolore atroce al petto. Le frasi aleggiavano in quella stanza, buia come un incubo. I suoi occhi s’irradiavano d’ardente gelosia. Credo che quel momento stia tornando. Aveva colto questa frase. Le aveva dato un volto. Rivedeva il suo amico, il suo sguardo magnetico, l’aria di mistero che suscitava, il suo senso di malinconia che lo affliggeva perennemente. Eccolo, Tadeus. Scrutava con spirito sornione, ai piedi del letto, come un gatto che aspetta le attenzioni dovute. Credo che quel momento stia tornando. Tadeus restava a osservarlo, con la bocca semiaperta. Come se volesse ospitarci qualche mosca. Ma Tadeus non era lì. Si trattava di un’allucinazione. Tadeus era tornato a Lisbona, aveva aperto una libreria, lo aveva invitato all’inaugurazione. Xavier c’era andato, non da solo. L’aereo da Linate, un viaggio tremendo, continui sballottamenti, un atterraggio da dimenticare. Lisbona però era sempre un piacere da rigustare. L’aveva vista con Tadeus la prima volta. Gli aveva lasciato un vuoto dentro, all’altezza del cuore. Una sindrome di Stendhal non curabile. Non è semplice malinconia la nostra, è una categoria dello spirito. Non si ricordava chi avesse pronunciato quella frase, se Tadeus o il vecchio proprietario di una libreria in Rua Voz do Operàrio, nei pressi di San Jorge. La stessa libreria che Tadeus rilevò e rinnovò alacremente. Non era mai sembrato interessato ai libri, ma i gusti cambiano, le scelte di vita anche. Solamente i sogni non cambiano mai. Questa frase. Xavier sprofondò in un altro ricordo, di molti anni prima.

Le aveva promesso di cenare insieme. Erano giorni che non riuscivano a vedersi. Lui tra lezioni da preparare, lei tra i mille turni in ospedale. Quella sera, però, erano riusciti a ritagliarsi uno spazio. Solo per loro due. Xavier le aveva promesso che avrebbe provveduto alla cena, anche al vino, magari un buon rosso dell’Alentejo. A lei non interessava bere. Aveva solo desiderio di parlargli. A volte basta uno sguardo per comunicare tutto, anche se non so come. Anche lei era lì, in quella stanza, come non lo era. Ofelia, la giovane dagli occhi di ghiaccio, stava comunicando con lui. A volte basta uno sguardo per comunicare tutto, anche se non so come. Non riusciva a guardarla, per timore, per imbarazzo, forse per senso di colpa. Quella cena non si fece mai. Quella stessa sera lo chiamò Tadeus. Aveva bisogno di uscire, non riusciva a stare in casa. Troppi demoni, troppi incubi, troppi angeli neri a ricordargli il passato. Credo che quel momento stia tornando. Xavier ripose la frase tra i tasselli giusti. « Credo che quel momento stia tornando. Non riesco a fare più nulla, mi sento debole, inerme, senza un’identità. Il futuro… ecco, ho paura del futuro ». Erano andati a mangiare fuori, avevano scelto un posto esotico, un ristorante vietnamita ai piedi della funivia. Tadeus lo aveva ringraziato. Finalmente una serata diversa, lontano dalle angosce quotidiane. Il clima non era ancora ostile, il cielo era terso, la temperatura gradevole. Dalle montagne arrivava una leggera brezza che odorava già d’inverno. Parlarono del passato con tenue malinconia. O era saudade? No, questa non è saudade, gli ricordò Tadeus. Lascia stare la saudade, ci vogliono i luoghi e i tempi giusti. Poi Tadeus fece una domanda. Chiese come stesse Ofelia. Xavier sentì insorgere uno strano fastidio. Gli rispose che doveva cenare con lei proprio quella sera. Alla fine però aveva deciso di uscire con lui, perché Tadeus era più importante. Sì, c’era un’amicizia sincera, fraterna. Tadeus rise. Era una risata diversa dalle solite, era una risata nera. Xavier non la prese troppo in considerazione. Tadeus guardò il cielo, si mise a fischiettare. Era un motivo familiare. Xavier sentì il petto svuotarsi. Un dolore, poi un brivido. Capì che dovevano accomiatarsi.

Honey I love you. That’s all she wrote. Tadeus era scomparso, così come Ofelia. Entrambi. Lo avevano lasciato solo. Aveva sognato solo per un attimo, solo per un secondo. Erano spariti. Insieme. Aprì la porta della stanza, la casa era vuota, senza vita. Si precipitò in cucina. Bevve un bicchiere d’acqua. Non riusciva a dissetarsi. Aveva bisogno di aria. Doveva uscire. Ripiombò in un altro sogno, ancora a occhi aperti.

La cucina era diversa. L’arredamento ricordava vagamente gli interni delle case della Germania dell’Est.  Xavier stava lavando i piatti. Ofelia era stanca. Lui non voleva farla faticare, aveva bisogno di dormire. Lei però voleva rimanere lì. Voleva dirglielo. Voleva dirgli che qualcosa a Lisbona era successo. Aveva ricevuto un segnale, un messaggio.

É ferida que dói, e não se sente;

É um contentamento descontente;

É dor que desatina sem doer.

Trasalì. Quei versi risaliti dal profondo li conosceva. Mancava il primo. Erano versi di Luìs Camões, il più grande poeta del Portogallo. Non sapeva dar loro forma. Forse non voleva.
Tadeus aveva regalato a Ofelia un libro. Minuscolo, molto vecchio. Si trattava delle Os Lusìadas, di Camões. Una dedica in portoghese spiccava sulla prima pagina. Una dedica d’amore, di una madre per una figlia, risalente al 1905.
A volte sono piccoli gesti a farti innamorare. Ofelia era tornata. La vedeva, seduta, con le gambe incrociate. Ofelia, la piccola Ofelia, per la quale Xavier provava un sentimento intenso e prosciugante. Il corpo giovane e asciutto non era quello di una donna matura. Il viso però ricordava le grandi dive della Nouvelle Vague. Era una leggiadra lode all’armonia. Lui l’amava. Non era un amore fisico. Era amore vero. Il tipico sentimento che si propaga tra le pieghe dell’inconscio e rimane lì, sepolto, e continua a bruciare. Era semplicemente troppo bella, Ofelia. Una bellezza assoluta, a volte implacabilmente severa. Sono i piccoli gesti a farti innamorare. Come un bacio. Quel bacio, dopo avergli rivelato ciò che temeva di più.

Tornò in camera, si sdraiò sul letto. Il disordine era aumentato, come se venisse prodotto dalla sua memoria colma di ricordi offuscati. Un’enorme entropia onirica. Quel bacio. Perché, Ofelia? Perché dopo aver detto che Tadeus… Tadeus, l’amico di una vita, la persona più importante che aveva, l’unico con il quale era sincero e si sentiva semplicemente sé stesso… perché, Ofelia? Quel bacio portava solamente menzogna, illusione.
« Sono i piccoli gesti a farti innamorare. Sai, i modi che ha… mi ha regalato un libro, credo sia un poema epico portoghese; c’è una dedica sulla prima pagina. Vuoi che te la legga? Sembra quasi scritta per me… mi ha colpita, molto. Mi stai ascoltando? »
Stava ascoltando. Con il cuore intriso di paura. Il battito aumentò. Sentiva implodere quel deplorevole muscolo. Non riusciva a respirare. Aprì la finestra. Avrebbe voluto urlare. Non ci sarebbe stato nessuno ad ascoltarlo. Ofelia aggiunse qualcos’altro. Xavier non recepiva più nulla. Solo allora si accorse che stava per immergersi in un altro sogno.

Tadeus lo osservava. Era solo, in una stanza grigia, vuota. Sembrava che stesse per confessare un crimine appena compiuto. « Tu non c’eri. Eri andato a Genova per quella conferenza. Lei mi ha invitato a casa. Si sentiva sola, molto. Abbiamo cenato, ascoltato un po’ di musica, del fado, lei cantava, aveva una voce bellissima. Le ho letto qualche poesia. Amor é fogo que arde sem se ver… ecco, quella poesia l’ha impressionata particolarmente. Le ho detto che il poeta era lo stesso del libro che le avevo regalato. Il libro con la dedica. E dopo… sai, a volte basta uno sguardo per comunicare tutto, anche se non so come. Non c’è molto da dire, Xavier, non c’è».

Amor é fogo que arde sem se ver

É ferida que dói, e não se sente;

É um contentamento descontente;

É dor que desatina sem doer.

Il primo verso. Era tornato al suo posto.

D’accordo. E poi?

E poi cosa?

« Sa cosa penso, Monsieur Pinto? Lei sogna troppo ad occhi aperti. Come prosegue la storia? »
Si scosse, tutto d’un tratto. Era seduto a un tavolo di un ristorante elegante con un curioso signore baffuto, dall’aria strampalata. All’orizzonte il tramonto sul mare. Doveva trattarsi di Cascais. Le palme, accarezzate dal vento, componevano una rilassante melodia che sapeva d’estate. Stava assaporando dell’arroz de cabidela, un piatto sefardita, non proprio adatto all’atmosfera del locale. Guardò meglio il suo convitato.
« Io, Monsieur… » tentennava. Si sentiva spaesato.
« Monsieur Pinto, tutto bene? Allora, finisce così il racconto? »
Prima di rispondere sorseggiò del vino bianco (doveva essere dell’Alentejo, sì, ne ebbe la conferma) e si schiarì la voce con dei colpi di tosse, che segnalavano più nervosismo che presa di coscienza retorica. Si sentiva terribilmente impacciato.
« Ecco, non lo so. Se per questo non so nemmeno qual è il motivo di questa cena.» Gli uscì una risata nervosa, innaturale.
Il signore baffuto cambiò espressione. Il volto corrucciato esprimeva preoccupazione, ma anche una certa insofferenza. « Monsieur Pinto, è tutta la sera che parla in maniera strana. Fa parte del suo personaggio? »
« Può essere, sì. »
« Oppure vuole prendersi gioco di me. »
« No, questo mai, Monsieur… » . Non ricordava il nome. Di sicuro era una persona importante.
« Bene, perché se vuole che il racconto venga pubblicato ci deve essere chiarezza tra noi, fin da subito. » 
Un editore. Il suo. O almeno, il suo probabile futuro editore. Doveva essere per forza così. Cercò di ricomporsi.
« Non la prenderei mai in giro. Non mi piace l’ironia, Monsieur. Ne ho dovuta sopportare fin troppo nella mia vita. Sarò sincero con lei: ho avuto un momento di smarrimento. Sarà la stanchezza per il viaggio, forse questo virus che gira. Insomma, càpita. »
« Non si preoccupi. Piuttosto riprendiamo il nostro discorso: la conclusione del suo racconto. »
Di quale racconto stavano parlando? Cercò di non entrare nel particolare. Doveva andare per tentativi, prima o poi lo avrebbe capito. Decise allora di rispondere filosoficamente, da scrittore fermamente convinto della propria poetica:
« Sa, ritengo che la parte più difficile per uno scrittore sia concludere una propria storia. Perché segna la fine di un’illusione, di un mondo che lo ha accompagnato per giorni. Perché la conclusione dà un giudizio sul tutto. E io, Monsieur, non voglio dare alcun giudizio. Non pretendo una soluzione unica, non credo in una sola visione della realtà. Le dimensioni sono molteplici, non le conosciamo, non riusciremo mai a visionarle con i nostri occhi, perché semplicemente non ne siamo capaci. Per questo sono sempre incline a lasciare quel dubbio nel lettore, un dubbio però costruttivo, che lo porti alla semplice realizzazione che la struttura che è alla base del nostro vivere è instabile, priva di sostegni effettivi. Un filo da seguire magari c’è e viene identificato; ma poi la realtà rende questa scoperta vana. ».  Dopo quella risposta capì che era meglio lasciare da parte la filosofia. E anche la sua presunta poetica.
Il signore baffuto fece una smorfia, come se disapprovasse. « Capisco il suo ideale letterario, ma è già stato trattato più volte in passato. E le epoche cambiano, Monsieur Pinto. I lettori anche. Quindi questo benedetto racconto » aggiunse, « non può rimanere incompiuto. Questo suo tagtraum è già è difficile da seguire. Lei non può lasciarlo così, in aria, senza un finale chiaro. »
Tagtraum. Forse il signore era tedesco. Forse era freudiano. O forse era il titolo del racconto. Decise per l’ultima ipotesi.
« Perché no? », ribatté con mascherata fierezza  « Il mio racconto ha già un titolo particolare: Tagtraum. Un nome così cacofonico, che richiama le atmosfere mitteleuropee di inizio Novecento. Riguarda un sogno, ad occhi aperti. Lei ha mai visto la conclusione di un sogno ad occhi aperti? »
L’editore s’innervosì una volta per tutte: « Ma questo non è soltanto un sogno ad occhi aperti, Monsieur Pinto! Qui c’è una raccolta da pubblicare! Ho creduto fermamente in lei, nelle sue idee, nella sua presunta originalità, nel suo tratto onirico…  ma ora basta! Pensavo che almeno questo racconto riuscisse a trovare un finale comprensibile, sembrava ben indirizzato. Bisogna sempre trovare una conclusione! E lei che fa? Via, non sia ridicolo! Il suo Xavier si sente tradito, giusto? Non è che ci voglia chissà quale analisi! E il suo amico Tadeus gli ha praticamente rubato la ragazza amata… giudizio… ma quale giudizio vorrebbe dare? È sempre la stessa storia. Lui ama lei, lei l’amico di lui. Però, comunque, deve trovarla una diavolo di conclusione! Come reagisce Xavier? Che fine fa Tadeus? E Ofelia? Chi è, come l’ha conosciuta. Le basi, Monsieur Pinto, le basi! E poi perché adesso ha cambiato il titolo del racconto?  »
Sempre la stessa storia. Provò di nuovo una sensazione di straniamento. Come se stesse per risvegliarsi in un altro sogno.

Camminavano velocemente. Non c’era molto tempo. La visita medica sarebbe stata tra un’ora, ma doveva farle vedere quella chiesa. A lei non interessava, era stanca, aveva freddo. L’ospedale è lontano, Roux, dài, non voglio fare tardi. Rouxignol sembrava non ascoltarla. Doveva portarla in quella piccola chiesa, in quel piccolo Duomo di Milano che si ergeva incastrato tra la strada e le spallette dell’argine. Roux, ti prego, sono stanca, voglio andare a visita e poi basta. Voglio dormire. Da quanto tempo non dormiamo, eh? Non riesco neanche più a sognare. Si sogna sempre, rispose d’istinto Rouxignol, mentre a passi rapidi avanzava impetuosamente. Eccola, finalmente, Santa Maria della Spina. Ti piace? Non è particolarissima?, pronunciò estasiato. Lei si irritò, non ne poteva più. Non era il momento giusto. Era preoccupata per la visita medica. Quella tiroide l’aveva sempre ossessionata. E ora poteva diventare un incubo. Rouxignol l’abbracciò. La strinse, come non aveva fatto mai. Anche lui aveva paura. Per quello l’aveva portata lì, perché a volte si ha più fiducia nello spirito che nella scienza, e la speranza ha bisogno di essere nutrita dall’anima. Quella chiesa gliel’aveva fatta visitare sua madre tanti anni fa. Sua madre, che aveva avuto la stessa malattia. Ti amo, Rouxignol. Anch’io, Ofelia.

Ofelia?
Lei si staccò dall’abbraccio. Come mi hai chiamato? Rouxignol cominciò a balbettare, non capiva. Una fitta alla tempia. Quella che aveva davanti non era Ofelia. Chi era? E anche Ofelia… perché aveva detto quel nome? Non conosceva nessuna che si chiamasse così.
È successo di nuovo, Roux?
Chi era Roux? Cominciò a contrarre le palpebre, il dolore era insopportabile. Dove si trovava?
Roux, ti prego, rispondimi!
So solo di amarti, non m’interessa chi sei. Non capì se avesse davvero pronunciato quella frase prima di svenire. Si risvegliò in ospedale. Nella stanza c’era un’infermiera dagli occhi grandi. Avrà avuto una ventina d’anni. Una sensazione di déjà vu. Sua moglie è dal dottor Anselmi, disse sottovoce l’infermiera. Non si preoccupi, questione di minuti. Pensi a riposare. Girò la testa verso la finestra. La giornata era splendida. Pisa aveva un calore particolare. Si sentiva a casa. Quell’ospedale l’aveva visto più volte con sua madre.
Da piccolo non aveva mai capito il perché di quel nome, Rouxignol. A scuola conosceva vari Matteo, Luca, Giovanni. Tutti nomi abbastanza comuni. Il suo no. Perché mi avete chiamato così, mamma? Da grande lo capirai. Adesso è troppo presto.
Invece avrebbe capito. Solo allora, durante l’infanzia. Quando era scevro da tutte quelle imposizioni mentali, quando era immerso nelle geometrie del mondo senza doverle comprendere. Si voltò nuovamente verso l’infermiera. Sa perché mi chiamo Rouxignol, signorina? disse con tono sincero, infantile. No, ha forse origini francesi? rispose incuriosita. Francese? Rouxignol rise sommessamente. No, no, sono portoghese. Lei di dov’è? Dall’accento non mi sembra di qui. Sono svizzera, disse la ragazza, del Ticino. Allora?, incalzò la giovane, non mi dice da dove proviene il nome? Certo, annuì Rouxignol, proviene da una ricerca. Dalla ricerca di una persona cara. Una persona con la quale condividi tutto ma che cerchi in tutti i modi di ingannare. Perché solo ingannandola sai che puoi celarla. Ma prima o poi si ripresenta. Come un’Ombra è dentro di te. Da qui proviene il mio nome, da una ricerca fallita. Per questo mi chiamo Xavier. Xavier?, domandò la ragazza, ma lei non si chiama Rouxignol? Sì, anche. Sa, dipende dalle circostanze, dalla malattia del momento. Oggi mi chiamo Xavier, domani magari Baruch. A seconda di quello che suggerisce l’inconscio. La lascio riposare, signore, disse con tono rassicurante l’infermiera. Quando ha bisogno non esisti a chiamarmi. Rouxignol socchiuse gli occhi.
La ringrazio, signorina. Subito dopo Xavier pronunciò un nome. Era riferito alla giovane.
L’infermiera stava uscendo dalla stanza. Si bloccò. Si voltò verso il suo paziente. Lo sguardo non era più sereno come prima. Sembrava una kore greca, ieratica e solida. Sempre la stessa storia, sospirò la ragazza.
Rouxignol si alzò dal letto. Andò verso di lei. Si trovavano di fronte, a pochi centimetri l’un l’altra. Perché non hai scelto me, Ofelia? Perché, dopo tutto quello che abbiamo condiviso? Abbiamo vissuto per anni insieme. Ti ho aiutata, ti ho consolata. Provavo felicità solo nel guardarti. Poi degli sporadici atti d’amore… ma era tutta un’illusione. Avevi già scelto. Perché proprio lui? Cosa aveva di speciale? È stato il libro? La canzone, la poesia, il suo sguardo? O è stato solo frutto del caso, incomprensibile per tutti? E adesso perché sei qui? Perché continui a perseguitarmi?
La ragazza rimase lì. Non era affatto sorpresa. Signor Pinto, non siamo nel suo racconto. Se lo ricorda, vero? Questo non è Tagtraum. Tra l’altro, volevo farle una critica. L’ho letto, come mi aveva consigliato. Molto strano, contorto, non si capisce la trama. Forse perché non c’è, non la voleva esplicitare. Voleva portare il lettore allo sfinimento, voleva fargli vivere quello che si prova sognando: l’eterna incomprensibilità. Devo dire però che ha esagerato nel labirinto, la sua è una scrittura troppo introflessa. Capisco perché trova tutte queste difficoltà nel farselo pubblicare Non mi aspettavo una critica così severa da un’infermiera, rispose stizzito. Ho un Master in Lettere, si fa quel che si può. Comunque io sono Vera, come già le ho detto più volte, ma grazie per avermi chiamato nuovamente come la sua protagonista. Evidentemente la ispiro. Vado a vedere se sua moglie ha finito. Uscì dalla stanza.
Monsieur Rouxignol Pinto tornò a letto. Era stata una giornata lunga e difficile. Aveva bisogno di riposare. Chiuse gli occhi e cadde in un sonno soave, innocente, come quando era bambino.

Si risvegliò. L’ospedale era svanito. Era tornato a casa. Sapeva cosa fare. Prese un foglio dalla scrivania e andò in cucina. Lì la luce entrava con intensità maggiore. Restituiva il candore che aveva smarrito lungo tutti quegli anni. Doveva scrivere, perché aveva capito. Era chiaro adesso. Si sentiva estrememamente fortunato. Aveva intravisto quel filo che lo legava alle azioni, future e passate. Xavier, Tadeus, Ofelia… e poi Rouxignol, il signore baffuto, l’infermiera. Sua madre. Quei luoghi, così diversi eppure tanto simili nelle sensazioni. Era stato tutto generato dalla casualità. Però c’era un progetto inscritto anche nel caso. Un progetto ricorsivo. Scrisse d’impeto, come i surrealisti, in maniera automatica, guidato da un motore interno.

Tornerà, – diceva l’Ombra

– stessa situazione, identica stasi.

Non puoi ingannare il desiderio.

                                                      Chi

in futuro? Che cosa avrà il sapore

del passato? L’illusione della novità.

                                                        E

quell’impercettibile scorrere

della lingua sulle labbra.

Non dubitare – concluse

– si ripresenterà.

Posò la penna e mise il foglio al centro del tavolo. Guardò davanti a sé. Sorrideva. Stava aspettando. E avrebbe aspettato tutto il giorno, tutto il tempo. Aspettava, aspettava… tornerà, continuava a ripetere, tornerà e poi via, nuovamente. E farà ritorno ancora. Finché me ne andrò io, finché lo vorrà il caso. Sempre la stessa storia.

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